Lo scorso primo novembre gli elettori israeliani sono stati chiamati alle urne per determinare la composizione del Parlamento nazionale (la Knesset). La tornata elettorale ha premiato il partito conservatore Likud, e soprattutto il suo leader Benjamin Netanyahu, che venerdì 4 novembre ha iniziato le consultazioni per la formazione di un nuovo governo. L’affluenza è stata alta nonostante si trattasse della quinta elezione legislativa in circa tre anni. Questi dati testimoniano tanto l’importanza dell’ultima elezione quanto l’instabilità e la frammentazione che hanno caratterizzato lo scenario politico israeliano negli ultimi tempi. Sebbene sia praticamente certo che Netanyahu riuscirà a formare un nuovo governo, uno sguardo alla recente evoluzione della politica israeliana, ai risultati delle ultime elezioni, e ai personaggi che sembrano destinati a giocare un ruolo di primo piano nel prossimo governo ci offre uno scenario non del tutto incoraggiante.
Si può osservare che la frammentazione politica rappresenta un aspetto costitutivo del sistema politico israeliano. La legge elettorale israeliana è infatti fortemente proporzionale. I 120 seggi del Parlamento monocamerale vengono distribuiti in un unico collegio nazionale con un sistema proporzionale e una soglia di sbarramento del 3.25%. È dunque piuttosto facile, anche per dei piccoli partiti, ottenere seggi. Allo stesso tempo, per formare governi è praticamente necessario ricorrere sempre a coalizioni formate da partiti con ideologie e orientamenti piuttosto variegati. Nonostante ciò, sembra evidente che la stagione di instabilità attraversata da Israele negli ultimi anni riflette delle divisioni più profonde e più difficili da sanare di quanto immaginato dai padri fondatori del paese.
Alcuni fattori emersi o consolidatisi di recente contribuiscono a spiegare questa crescente instabilità. Tra questi si può citare in primo luogo lo stato di conflitto in cui Israele si trova a partire dalla sua fondazione, nel 1948. Con l’espansione territoriale di Israele, gli aspetti di sicurezza e le questioni circa l’identità del paese sono divenuti più salienti nel dibattito politico. In secondo luogo si possono citare i fattori economici. Israele ha un’economia molto avanzata, innovativa e dinamica, ma da alcuni decenni la crescita del paese non è inclusiva: le disuguaglianze sono in aumento e penalizzano soprattutto i cittadini arabi di Israele (che costituiscono circa un quinto della popolazione del paese, senza contare gli arabi che risiedono nei territori occupati e che dovrebbero diventare i cittadini del futuro Stato palestinese) e gli ebrei ultra-ortodossi. Infine, come in molti altri paesi – occidentali e non solo – Israele ha recentemente sperimentato una notevole crescita dei movimenti populisti, e in particolare di formazioni di destra populista e conservatrice che pongono al centro dei loro programmi l’affermazione dell’identità, in questo caso ebraica.
La recente tornata elettorale è stata resa necessaria dalla prematura caduta, la scorsa estate, di un governo di centro-sinistra e votato all’inclusività che aveva preso in carico la direzione del paese nell’estate del 2021. Questo esecutivo era retto da una maggioranza parlamentare di un solo seggio e da una coalizione molto variegata, tra cui figuravano il partito di ispirazione religiosa Yamina e quello laico e liberale Yesh Atid, nonché – per la prima volta nella storia di Israele – una formazione araba, la Lista araba unita. Questo governo ha guidato il paese verso la fine dell’emergenza sanitaria e nella ripresa economica, vantando una crescita del Pil superiore al 7% su base annua. L’esigua maggioranza parlamentare e la forte eterogeneità della coalizione hanno tuttavia rappresentato un tallone d’Achille che ha compromesso la tenuta del governo, aprendo la strada al ritorno di Netanyahu e alla ripresa delle forze di destra.
Tra i partiti che sono risultati sconfitti nella tornata elettorale dello scorso primo novembre, il più votato, con 24 seggi, e’ stato Yesh Atid, che ha in effetti migliorato il proprio risultato rispetto alla precedente elezione. Yair Lapid, il leader di Yesh Atid che ha svolto il ruolo di Primo ministro nella legislatura da poco conclusa, si appresta a diventare il punto di riferimento per l’opposizione. La sinistra ha invece ottenuto dei risultati scoraggianti. Il Partito laburista, che aveva dominato lo scenario politico negli anni successivi alla fondazione di Israele, ha superato di poco la soglia di sbarramento del 3.25%, ottenendo quattro seggi, mentre un altro partito di sinistra progressista, Meretz, non e’ riuscito a tornare in Parlamento. I risultati sono stati negativi anche per i partiti arabi. Nelle elezioni del 2021, le formazioni che mirano a tutelare in particolare gli interessi dei cittadini arabi di Israele si erano aggregate nella Lista araba unita, ottenendo un risultato positivo tale da permettere l’ingresso nella compagine governativa. La caduta del governo e il mancato raggiungimento di un simile accordo in occasione dell’ultima elezione hanno invece demoralizzato gli arabi israeliani e penalizzato i partiti arabi, favorendo la vittoria della destra.
La coalizione conservatrice che Netanyahu appare destinato a guidare ha ottenuto 64 seggi su 120, una maggioranza che sembra in grado di garantire un governo stabile. Oltre ai 32 seggi ottenuti dal Likud (corrispondenti a circa il 23.4% dei voti), i partiti ultra-ortodossi hanno ottenuto un totale di 18 seggi, mentre un raggruppamento di forze di estrema destra ha ottenuto 14 seggi. La composizione della nuova maggioranza, pur facendo sperare in un recupero della stabilità di governo, rappresenta uno sviluppo per molti versi inedito nello scenario politico israeliano, e ha destato alcune serie preoccupazioni. La formazione di estrema destra, nota come “Partito religioso sionista” e guidata da Bazalel Smotrich, conta fra i suoi eletti personaggi come Itamar Ben-Gvir – leader del raggruppamento ‘Potere ebraico’, che sembra interessato ad avere un ruolo responsabilità di governo in materia di sicurezza. In passato, Ben-Gvir non è stato autorizzato a svolgere il servizio militare a causa delle sue posizioni estremiste ed è stato condannato per incitamento al razzismo. Nella sua carriera politica si è distinto per dichiarazioni omofobe e soprattutto per la promozione di una versione dell’ideologia sionista improntata all’intolleranza nei confronti degli arabi, all’opposizione al processo di pace con i palestinesi e all’apologia della violenza politica. Anche Benjamin Netanyahu, il leader del Likud e della coalizione che si appresta a guidare Israele, risulta essere un personaggio politico abile e di successo ma al tempo stesso molto controverso. Netanyahu – anche noto come “Bibi” – è infatti un politico di lungo corso che ha raggiunto i vertici del potere politico israelaino negli anni Novanta del secolo scorso, e detiene il record di longevità come Primo ministro nella storia di Israele. La sua ascesa e il suo ruolo dominante nel sistema politico israeliano sono stati determinati da una notevole capacità di leggere e comprendere l’elettorato israeliano e da un’altrettanto notevole capacità di creare e gestire le coalizioni parlamentari. Allo stesso tempo, tuttavia, “Bibi” si è anche distinto per un atteggiamento fortemente cinico e opportunista che lo ha portato ad esempio a opporsi ad alcuni traguardi fondamentali nel processo di pace israelo-palestinese come gli accordi di Oslo e ad adottare una retorica populista e identitaria che lo hanno reso molto simile ad alcuni controversi leader di destra europei, come l’ungherese Viktor Orban. Netanyahu è inoltre sotto processo per tre diversi scandali di corruzione, e naturalmente questo dato di fatto potrebbe avere conseguenze sull’evoluzione del governo e sulle politiche attuate nella legislatura che sta per iniziare.
Sul piano della politica interna, come già accennato, i risultati della recente elezione possono far sperare in una maggiore stabilità e longevità di governo – uno scenario particolarmente desiderabile per un paese che ha vissuto una stagione di profonda instabilità politica. Allo stesso tempo, tuttavia, la prospettiva di un governo di destra identitaria e di un Primo ministro accusato di corruzione non sembra offrire molte possibilità di risolvere alcuni problemi strutturali che penalizzano la comunità politica israeliana, come la disuguaglianza economica e la marginalizzazione di alcune minoranze – in particolare gli arabi israeliani.
La prospettiva di un governo retto da una coalizione di destra conservatrice che mette l’identità al centro della propria visione pone inoltre un significativo numero di interrogativi dal punto di vista del futuro della politica estera e di sicurezza di Israele e circa le possibilità di fare progressi verso la risoluzione della questione israelo-palestinese. Il governo che sta prendendo forma avrà probaliblemte un atteggiamento più intransigente nei confronti del processo di pace e più permissivo nei confronti degli insediamenti israeliani nei territori occupati e destinati al futuro Stato palestinese – insediamenti che sono considerati illegali in base al diritto internazionale. Questo atteggiamento appare destinato a generare maggiore tensione in un contesto in cui gli episodi di violenza fra israeliani e palestinesi sono in significativo aumento, con 170 palestinesi e 20 israeliani uccisi nell’ultimo anno. Tutto ciò potrebbe avere conseguenze negative anche sul processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni stati arabi avviato con gli “Accordi di Abramo” del 2020 – in particolare con le monarchie del Golfo Persico. Allo stesso tempo, va notato che il nuovo governo avrà probabilmente un atteggiamento più aggressivo nei confronti dell’Iran e sarà più incline a promuovere una soluzione militare alla sfida posta dal programma nucleare iraniano, e da questo punto di vista sarà in sintonia con i paesi del Golfo e in particolare con l’Arabia Saudita. Un atteggiamento più intransigente verso il processo di pace israelo-palestinese e più aggressivo nei confronti dell’Iran potrebbero tuttavia costituire una seria sfida per le relazioni tra Israele e il suo principale alleato e sostenitore – gli Stati Uniti. Il presidente americano Joe Biden ha costantemente ribadito il sostegno di Washington nei confronti di Israele. Tuttavia l’amministrazione Biden sostiene ufficialmente la soluzione dei “due Stati” (appoggiata anche dal resto della comunità internazionale) che prevede la creazione di uno Stato palestinese nei territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, e sta faticosamente cercando di rivitalizzare la cornice di cooperazione stabilita con l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (che prevede la possibilità per l’Iran di sviluppare un programma nucleare civile sotto stretto monitoraggio da parte delle istituzioni internazionali).
La coalizione che si appresta a guidare Israele può dunque offrire al popolo israeliano la possibilità di uscire dal circolo vizioso di instabilità politica che ha fortemente penalizzato il paese negli ultimi anni e dare ai cittadini israeliani la possibilità di affermare in maniera più stabile il loro talento e lo spirito innovativo e imprenditoriale che stanno determinando la grandezza del paese. Allo stesso tempo, tuttavia, il carattere conservatore e identitario della nuova coalizione rischia di compromettere significativamente il processo di pace israelo-palestinese e le possibilità di Israele di continuare la propria esistenza come Stato laico, inclusivo e democratico.
Diego Pagliarulo
[…] Lo scorso 29 dicembre è stato ufficialmente varato il nuovo governo di Israele. Benjamin Netanyahu – un politico di lungo corso anche noto come “Bibi” – è il leader del partito conservatore Likud e detiene il record di Primo ministro più longevo nella storia di Israele, una posizione che rivestirà di nuovo per la durata della legislatura inaugurata a seguito delle elezioni del novembre 2022. […]